Sanniti, Sabini, Sabelli e… Sambuco

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Da sempre le piante hanno rappresentato una risorsa essenziale nell’evoluzione umana in quanto fonte inesauribile e rinnovabile di cibo, tessuti, legno, cure e tanto altro. Tuttavia alcune di esse hanno saputo attecchire su un suolo non comune, diverso da terra e humus, affondando le proprie radici nel cuore e nella mente delle popolazioni antiche a tal punto da diventarne un elemento totemico come il salice per gli egizi, l’ulivo per i romani, l’abete per i greci e il ficus per gli indiani. Anche le antiche popolazioni abruzzesi preromane avevano la loro pianta sacra immancabile nei riti magici e propiziatori, nelle festività, nella medicina popolare e nelle attività quotidiane: il sambuco nero. Scopriamo insieme le varie e antiche storie che questa pianta ha da raccontarci!

Il Sambucus nigra L. (Sambuco nero, Sambuco comune) è un arbusto o piccolo albero caducifoglio appartenente alla famiglia delle Caprifoliaceae. È presente in tutte le regioni italiane e in questo periodo è facilmente osservabile ai bordi delle strade e nei confini dei terreni agricoli. Le larghe è candide infiorescenze rilasciano nell’aria un odore dolce inconfondibile che richiama nugoli di insetti pronti a far scorta di nettare imbrattandosi inconsapevolmente di polline. La famiglia delle Caprifoliaceae è distribuita nelle regioni temperate di tutto il mondo e annovera al suo interno specie erbacee, arbustive, arboree, lianose e suffruticose. La sua origine è molto antica e i primi resti fossili appartenenti ad essa risalgono al periodo Cretacico (Pirone G., 2016). Il genere Sambucus è costituito da circa 40 specie, diffuse in tutto il globo poiché adattatesi ai climi più diversi, che vegetano sia nelle regioni tropicali sia in quelle temperate e montane. Tra le caratteristiche distintive del genere si hanno il fusto con abbondante midollo; le foglie opposte ed imparipennate; i fiori piccoli gialli o bianchi riuniti in corimbi e il frutto che è sempre una drupa.

In Italia sono presenti 3 specie: Sambucus nigra L., Sambucus ebulus L. e Sambucus racemosa L. tuttavia quest’ultimo risulta molto raro e localizzato. In Abruzzo sono presenti tutte le specie italiane anche se per il S. racemosa L. si hanno solo segnalazioni ancora da confermare (Pirone G., 2015). Nonostante il sambuco nero cresca quasi ovunque, tanto da risultare invasivo, come habitat ideale predilige radure, margini di boschi umidi e scarpate. Ha una spiccata tendenza nitrofila ed è una pioniera aggressiva e tenace grazie all’alta capacità pollonifera. Generalmente vegeta dai 0 ai 1.400 m s.l.m. e il Corotipo è Europ.-Caucas.

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Foglia composta di Sambucus nigra L. Si noti in alto a destra l’infiorescenza a corimbo con i fiori in procinto di sbocciare.

L’etimologia del nome generico Sambucus è molto interessante in quanto deriverebbe dal greco “sambike” che indicava un tipo di flauto ricavato dai rami del sambuco svuotati del midollo. Altre tesi sostengono la derivazione latina da “sambuca” uno strumento musicale a corde. Il nome specifico deriva invece dal latino “niger” nero in riferimento al colore delle drupe mature.

Da un punto di vista morfologico il sambuco si presenta come un arbusto o piccolo albero di altezza compresa tra i 5 e gli 8 metri ma nelle migliori condizioni pedoclimatiche può raggiungere anche i 10 metri. La forma biologica attribuita dal Pignatti è P caesp (fanerofita cespugliose) che categorizza piante legnose con portamento cespuglioso. Il sambuco si presenta con chioma espansa, densa e globosa, con tronco sinuoso ramificato dalla base e spesso biforcato. L’inconfondibile corteccia, inizialmente verde negli esemplari giovani, poi grigio-bruno negli adulti, è caratterizzata da vistose lenticelle longitudinali brunastre e solchi profondi. Le foglie sono composte, opposte, picciolate lunghe 20-30 cm e acute all’apice, con stipole ovate o tondeggianti di circa 1 cm. La lamina è imparipennata, portante 5-7 segmenti ovati ad apice acuminato e margine dentato con nervature evidenti. I piccoli e profumati fiori, riuniti in infiorescenze peduncolate, ombrelliformi larghe fino a 20 cm di diametro, hanno calice corto e campanulato con corolla arrotondata composta da 5 petali color bianco candido. Sono presenti 5 stami con antere sporgenti gialle. I frutti sono piccole drupe carnose di forma globosa, lucide e di color viola-nerastre a maturità, contengono dai 2 ai 5 semi piccoli e ovali.

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Particolare dell’infiorescenza a corimbo. I fiori emenano un odore dolce molto intenso.

Attenzione a non confondere il Sambucus nigra L. con il Sambucus ebulus L. (TOSSICO!). Le specie presentano molte differenze, per saperne di più potete leggere qui.

Come già anticipato il sambuco era considerato sacro anche per il potere curativo esercitato dai numerosi principi attivi presenti nei suoi organi. Già nel neolitico si raccoglievano grandi quantità di frutti di sambuco probabilmente per farle fermentare ricavandone delle bevande leggermente alcoliche. Ne sono testimonianza le grandi quantità di semi nei fondi di giare di terracotta ritrovate in diversi siti archeologici in Italia e in Svizzera (Viola S., 1975). Tra i greci sia Teofrasto (371 a.C. -287 a.C.)  che Ippocrate (460 a.C. – 377 a.C.) attribuirono al sambuco proprietà lassative, diuretiche e ginecologiche. Dioscoride (40– 90) consigliò l’infuso della radice contro raffreddore, anasarca e come siero antivipera mentre il succo delle giovani foglie come crema emolliente per le scottature. Il noto umanista, medico e botanico italiano P. A. Mattioli (1501 – 1578) confermò ogni proprietà e utilizzo passato elevando il sambuco a vera e propria panacea (Viola S. 1975). Ma la cornucopia delle virtù terapeutiche non finisce qui. Attraverso la preparazione di infusi, decotti, tinture, sciroppi, creme e cataplasmi la medicina popolare ricorreva all’uso del sambuco per curare insufficienza renale, stipsi, infiammazioni intestinali, febbre, affezioni delle vie aeree, contusioni e ascessi orali. Inoltre il succo dei frutti era utilizzato contro le nevralgie. Ogni parte della pianta poteva essere utilizzata ma la porzione più ricercata era il floema, contente il massimo dei principi attivi. (Di Massimo S., 2005). Nonostante la medicina moderna abbia sostituito quella empirica tradizionale, negli ultimi anni il sambuco comune sta tornando in auge soprattutto per la confezione di sciroppi, bevande, marmellate e come integratore nelle diete dimagranti in virtù dei suoi effetti spiccatamente diuretici.

Prima del Novecento era l’esperienza a guidare la mano dei curatori ma grazie al progresso della scienza e della medicina tra il 1901 e il 1905 il Sambucus nigra L. è stato sottoposto ad accurate indagini biochimiche tanto da riuscire ad isolare i suoi principali costituenti: sambucina e sambunigrina, rispettivamente un alcaloide e un glucoside. Successive analisi hanno portato all’isolamento di composti polifenolici, acido malico, tartarico e ursolico, quercitina, rutina, vitamine A e C e tannini. (Di Massimo S., 2005).

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Particolare dei frutti maturi. Grazie alla presenza di tannini erano utilizzati per produrre un colorante naturale per tessuti, inoltre la presenza di zuccheri li rende ottimi per confezionare marmellate.

Dopo aver illustrato le utilizzazioni e le virtù officinali di questo meraviglioso arbusto è giunto il momento di spiegare cosa lo lega alle antiche popolazioni dell’Aprutium. La professoressa e antropologa abruzzese Maria Concetta Nicolai nella sua opera “La sacralità alla base di una norma consuetudinaria: il sambuco, come termine agrario del campo” del 1974 riporta il risultato di alcuni studi glottologici che spiegano come il nome di Sanniti, Sabelli e Sabini derivi comunemente dal radicale sabus (sambus), lo stesso del nome sambuco che poi si scinde in samb- radicale e ucus- suffisso proprio dei termini di piante e frutti in quanto questi tre sarebbero stati popoli di coltivatori di sambuco. L’usanza di coltivare il sambuco ha resistito fino ai giorni nostri tanto da diventare un elemento peculiare delle campagne italiane. Molto spesso si incontra il sambuco ai limiti dei campi proprio per delimitarne l’estensione. La scelta di questa essenza è legata in primis alle dimensioni ridotte che non sottraggono troppo spazio alle colture, in secundis alla facilità di essere riprodotte per talea e alla straordinaria capacità di emettere nuovi getti. Queste ultime due caratteristiche garantiscono inamovibilità e durata del confine rivelandosi notevolmente più efficaci rispetto ai termini lapidei che potevano essere spostati per sottrarre terreni al vicino (Manzi A., 2003). Nell’antichità le controversie per i confini erano molto frequenti e spesso violente tanto che già nel 37 a.C. lo scrittore e militare romano Varrone (116 a.C.- 26 a.C.) nel suo De Re Rustica consigliava di piantare alberi per delimitare i campi. Questa usanza accrebbe il valore simbolico del sambuco decretandone l’intoccabilità e la sacralità tanto che nel Medioevo divenne la pianta dell’onestà e della vigilanza (Manzi A., 2003).

La riverenza per “lu sammuche” (in dialetto abruzzese) ha saputo valicare gli anni tanto che a Fano Adriatico (TE), fino a pochi decenni fa, persisteva l’usanza di portare in tasca una foglia di sambuco per contrastare il malocchio (Tammaro F., 1984). Tra i contadini di Paganica (AQ) vi era la convinzione che non si dovesse bruciare il legno del sambuco altrimenti le galline non avrebbero più deposto le uova e a Basciano (TE) si ricorreva al sambuco per curare la “gnannure”, un ingrossamento delle ghiandole linfatiche, ponendo un rametto sotto il cuscino del malato. Una delle più suggestive tradizioni che manifestano la forza simbolica che il sambuco evocava nelle genti d’Abruzzo si riscontra a Cupello (CH) e ci è raccontata dalla scrittrice Yvonne Massetti nell’opera “Medicina e cultura popolare in Abruzzo tra Ottocento e Novecento”. La Massetti testimonia che le donne del paese conducevano i malati di febbre terzana presso un sambuco e al suo cospetto pronunciavano la seguente formula: “Bon ggiorne signore sambuche, la terzane atté l’adduche, te l’adduche e tte la lasse, me la ripiglie quande arepasse”, ossia “Buongiorno signor sambuco, ti porto la febbre terzana, te la porto e te la lascio, me la riprendo quando ripasso”. Naturalmente la donna fuggendo senza voltarsi non si sarebbe più avvicinata a quella pianta negli anni a venire. (Manzi A., 2003).

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Due nuovi rami a corteccia verde che spuntano da un ramo adulto. Si noti la differenza nella corteccia e la vistosa presenza di fessure e lenticelle.

Non solo per magie e medicamenti si ricorreva al potente sambuco ma anche nelle attività lavorative ci si serviva delle sue parti: dai frutti maturi si ricavava un colorante viola per tingere i tessuti e un rudimentale inchiostro per scrivere, mentre il legno era molto apprezzato da falegnami e contadini per la proverbiale leggerezza unita ad una eccezionale resistenza delle fibre. Molti manufatti sono stati realizzati con il legno di sambuco, dai più semplici flauti e cerbottane per i bambini, ai gioghi per i buoi fino alle artistiche porte delle chiese d’Abruzzo. Ne sono un esempio le porte rinascimentali della Chiesa di San Biagio a Taranta Peligna (CH) e le porte della Chiesa di Santa Maria in Cellis a Carsoli (AQ) ora conservate al Museo d’arte sacra della Marsica nel castello Piccolomini di Celano (AQ).

Bibliografia:

Conti F., Abbate G., Alessandrini A., Blasi C. (a cura di), 2005. An annotated checklist of the Italian vascular flora, Palombi Editore.

Di Massimo S., Di Massimo M., 2005. Planta medica, le erbe officinali tra scienza e tradizioni. I quaderni dell’ambiente N°19. Pesaro (PU).

Manzi A. 2003. Piante sacre e magiche in Abruzzo. Lanciano (CH).

Pignatti S., 1982. Flora d’Italia. Bologna.

Pirone G. 2015. Alberi arbusti e liane d’Abruzzo. Penne (PE).

TAMMARO F., 1984. Flora Officinale d’Abruzzo, Regione Abruzzo, a cura del Centro Servizi Culturali-Chieti.

Viola S., 1975. Piante medicinali e velenose della flora italiana. Novara.

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